martedì 25 novembre 2014

La crema del tempo

Avevo otto anni. Il pomeriggio era lungo quanto la luce che entrava dalla finestra e caldo quanto il vento che ne gonfiava le tende. Le mie giornate giravano intorno al tavolo della cucina, come ci giravo io: lui immobile ed inerme a seguire il tempo delle stagioni, io correndo come un disperato, aspettando che venisse l’estate, consumando prima le scarpe coi lacci poi i sandali di cuoio. Mi fermavo un attimo, per prendere fiato o per un richiamo di mia madre “Giggì dai e basta! Siediti due minuti! Dai che ti faccio un panettone!”. Povera mamma, santa donna: quanto l’ho fatta penare dietro alle mie corse per casa. Lei si alzava stanca dalla sedia dove leggeva i punti dell’uncinetto come fa un marinaio con le carte nautiche, io invece mi sedevo, impaziente e ammonito da tale dolciaria austerità con le braccia conserte e il muso basso. “A Mirella e Carmela non dici mai niente. Sempre io.”, però intanto la osservavo con gli occhi felini in un mix di felicità e orgoglio. Sbatteva un uovo con lo zucchero, aggiungeva il latte, una scorza di limone, un pugno di farina. Bolliva sul fornello più stretto il pentolino. Il profumo deciso del limone inondava tutto: calore e odore permeavano i mobili azzurri della cucina. Io appoggiavo la testa sul tavolo, guardandola incantato. “Dopo metti la crema?” chiedevo. Una crema giallo zafferano, densa, che s’agitava unita così come la scuotevi dalla pentola. Mia madre allora la lasciava lì ancora fin quando la superfice non s’induriva e allora le tracce del mio indice non potevano non rimanere nascoste. Io mettevo la sedia contro l’anta del mobile basso e in ginocchio guardavo fuori dal bordo il vapore che saliva profumato e irresistibile. “E’ ora?”, “No, ancora è presto, aspetta”. “E’ ora?” – “Nooo”, serena mentre incrociava filo e uncinetto tra l’indice e il pollice. “E adesso?” e lei s’alzava senza risposta, come se conoscesse i tempi atomici del raffreddamento degli ingredienti, allungava il mento verso i fornelli e ricominciava, tagliava la buccia di un’arancia e la univa all’intruglio giallo. Il profumo di quella scorze mi piaceva così tanto che scendevo dalla sedia e per qualche minuto, dimenticando la crema. Sarà stato forse quello l’odore che ha accompagnato la mia intera infanzia: acre/speziato/paglierino/dolce/malinconico/estivo.”Vieni,è pronto!” e mi sedevo vicino a lei, mangiavo piano quel panettone ancora caldo e la crema che ne attraversava il mezzo. Ogni volta che al centro del tavolo appariva un dolce era una gran festa, la mia festa con tanto di foto e candelina. E’ quel modo di sentirsi felici con poco che ora mi manca: ho tutti gli ingredienti ma non potrei mai organizzare una festa come quelle della mia infanzia intorno a un panettone. Mia madre allora tornava ai fornelli proprio quando il pomeriggio diventava una lunga ombra scura nella cucina. Non ho mai capito come facciano le madri a conoscere senza avere la percezione fisica del tempo i giusti tempi di cottura della pasta sui fornelli, di quando sia il momento di cambiare di un piano all’altro del forno un dolce, se penso proprio a mia madre come riesca a preparare la cena per un’intera famiglia, dividendosi tra il suo silenzioso e perpetuo cucito e le estrazioni metodiche del lotto sulla Rai. Io cominciavo ancora a giocare, correndo intorno al tavolo o disegnando con le dita sul vetro umido. Il mio pomeriggio era allora notte, il nero si accendeva della luce luci del lampadario al centro della stanza e il silenzio era rotto solo dal mio lamento: mia sorella Mirella m’aveva fatto cadere ancora. Ancora non mi spiego perché mi venisse voglia di correre intorno a quel tavolo e ora che di anni ne sono passati venti vorrei correre all’incontrario per far ritornare quel tempo con i suoi odori di buono e la voglia di piangere ma per un motivo valido fino al silenzio un istante prima di dormire.

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