lunedì 22 dicembre 2014

200uno


“Ho fatto la valigia”, dico dal fondo del corridoio e mentre lo dico la chiudo. “Stac-stac, ziip”: il rumore a sigillare l’azione, l’azione a sigillare la decisione, la decisione a sigillare la scelta e tutte le altre scelte che m’hanno portato via di qui. “Va bene…”, risponde, mentre raccolgo da terra alcuni libri, metto in ordine le mie cose, perché non riesco a farlo con i pensieri almeno non ora, mentre esco dalla camera. In cucina preparo il caffè, lascio i piatti nel lavadino: automatismi quotidiani. Gli automatismi prima di partire sono la valvola di salvezza per non galleggiare nella bile che bussa allo stomaco come i secondi che passano nell’orologio alla parete per un’ora, un quarto d’ora, cinque minuti prima di andarsene. Queste piccole faccende salvano dalla pazzia e lasciano il ricordo del ragazzo, che in fondo è diventato uomo e che sa curare anche casa oltre se stesso. In effetti asciugo i bicchieri ed io non ho mai asciugato i bicchieri in vita mia: sto creando nuovi automatismi, perché quelli che ho già non mi bastano. “Lascio sul tavolo le chiavi di casa. A Firenze che le porto a fare”, dico, lasciando sul quel legno il testimone di un’adolescenza che m’ha portato lontano da casa. “Io vado, ciao!” e il rumore di passi, della porta che si apre, della porta che si chiude mi accompagnano in questo rallenty sulle scale. Aspetto gli altri rumori: quelli del portone che stride, della serratura dell’auto che clap s’apre a distanza, le ruote che stridono sul pavimento manovrando e poi la spinta dalla prima alla seconda lungo la salita. Quando sono finiti i soliti rumori che mi parlano di partenza, immagino sempre mia madre che esce dalla cucina ed entra in camera mia, spalanca la finestra,toglie le lenzuola dal letto e le mette nella lavatrice senza dire una parola, senza nemmeno un sospiro, frettolosa con le sue gambine leggere: automatismi. E poi c’è mia sorella Carmela che riprende il discorso lasciato in sospeso appena sono arrivato a casa una settimana fa e ora corre per la casa che “sono già le quattro e devo andare al negozio, che Angelica oggi non c’è e viene il rappresentante” e, mentre lo dice, intanto erompe riordinando l’armadio che ho fatto esplodere dai vestiti cambiati e dalla scrivania vissuta durante le notti passate al computer: automatismi. Sono duecento volte che negli ultimi dieci anni sono tornato a casa dal luogo in cui di volta in volta mi trovassi e per duecento volte ho aperto e chiuso valige, pulito bicchieri, percorso la salita di casa, voltando le spalle all’adolescenza che non ho più ma tornando da chi mi ha permesso tutto questo, a chi è stato in piedi la notte per costruirmi un futuro. Duecento volte ho vissuto questi automatismi e, ora che guardo il calendario, domani saranno duecentouno. Richiudo la valigia e un pensiero sfugge, riesce a trovare lo spiraglio fra le cianfrusaglie in questa camera fiorentina e gli abiti da lavare a casa. Sfugge e si infila dentro le tasche: è lo stesso pensiero che mi attanaglia da sempre, che m’ha portato via e che mi fa tornare, che mi permette di fare e sopportare,di parlarmi e parlare. Per duecento volte questo pensiero l’ho chiamato “casa”. Domani saranno duecentouno.

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