domenica 14 dicembre 2014

Signor Forse

ll signor Forse arrivava in piazza portando la bicicletta a mano, nonostante avesse  le mollette nel fondo dei calzoni, per non farli sporcare. Arrivato davanti al bar metteva la bicicletta contro il muro, la chiudeva con una catena grossa un pugno, neanche avesse da legare un leone, poi entrava dentro, togliendosi cerimoniosamente il berretto ma dimenticandosi le mollette, cosicchè pareva un signore a tre quarti. “Forse prendo un caffè - diceva – o forse un amaro.” Ci pensava un po’, mentre il barista, che lo conosceva da sempre, gli diceva “faccia con comodo” e andava a servire gli altri. Tornava e preparava un caffé, che da almeno 45 anni il signor Forse prendeva quello e glielo serviva, togliendolo dal dubbio e facendogli venire un sorriso grosso come una casa. Poi il signor Forse si sedeva al tavolino vicino alla vetrina in modo da vedere passare la gente e aspettava i compagni del pomeriggio. Entravano alla spicciolata: Mario di Santo Spirito, Renzo lo zoppo, Marco dell’osteria, Don Giffi il prete, Domenico di Pitti. Ordinavano tutti in coro “il solito“, poi si sedevano vicino al signor Forse, per perdere quelle ore fra il pranzo e la cena, tempo messo lì apposta per fare quattro chiacchiere e decidere della vita degli altri. I discorsi partivano sempre dal tempo. “Forse piove – diceva il signor Forse – forse viene fuori il sole, forse arriva la primavera. Forse.” Poi si passava alla politica, a seguire i problemi del paese, per finire sempre nelle disgrazie altrui. A dar contro alle dicerie che vogliono le donne pettegole, bastava andare al bar dopo pranzo e restarci fino all’ora della cena: in quel tavolo passavano le storie di tutti i paesani, dai cornuti agli ammalati, a quelli con un piede nella tomba, ai pochi che avevano avuto fortuna. Ecco, forse non c’era malizia in quelle dicerie, piuttosto una vena di fatalismo, che la vita se ti prende in un modo c’è poco da farci: e in quelle cose lì il signor Forse dava il meglio. Partiva con un “forse il sarto chiude, forse” e da lì scattavano le domande “ma come? Ma se è cinquant’anni che fa quel mestiere!” e a nessuno veniva in mente che dopo cinquant’anni a far completi e prendere misure e cucire punti piccoli come pulci a uno potesse venire in mente di smettere e accantonare aghi fili e bottoni e riposarsi. Il signor Forse allora continuava “forse va via, un viaggio lungo, forse”. Era quel “forse” che metteva in ogni angolo di discorso, che gli aveva fatto dare il soprannome, ed in quei “forse” c’erano tanti sottintesi che la gente stava lì ad aspettare: di sicuro c’era altro da sapere. “Forse ha una donna - diceva allora piano – forse”. Una donna! Il sarto!” esclamò Domenico. “Ma no! E chi?” si interessava Don Giffi. “Forse una già maritata. Forse“. Era un bisbiglio quell’ipotesi, una cosa così grossa che il “forse” prima e dopo veniva subito cancellato e si aggiungevano invece nomi e cognomi di signore troppo arzille e mariti con la faccia da cornuto. Il signor Forse teneva banco fino alle sei di pomeriggio, poi prendeva il cappello, si alzava piano, e salutava “forse ci si vede domani, se non ho altri impegni. Forse”. Cosa che avrebbe fatto cascare il cielo, perchè da 45 anni il signor Forse non perdeva una battuta e i giri li faceva al mattino tanto era solo lui e non aveva chi lo aspettava a casa. Toglieva la catena alla bicicletta e le donne dal rumore capivano che era tempo di metter su l’acqua per la pasta della cena. Prendeva il manubrio e camminava per la piazza ormai vuota. Si fermava in fondo all’imbocco del corso, si voltava indietro, alzava la mano e con un eco lontano salutava ancora gli amici che uscivano dal bar “forse ci si vede domani, forse”. Poi saliva sulla bicicletta e andava via, pedalando piano in fondo al vicolo.

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